Il Perdono Nella Coppia
IL PERDONO NELLA COPPIA COME SPECCHIO DELLA TENEREZZA DI DIO
di Tosoni Luca
PREMESSA
Molto spesso ho affrontato negli incontri tenuti con coppie il senso e il valore del perdono. E’ difficile parlare, nella nostra società, di un valore che dovrebbe essere il fulcro di ogni rapporto sia nella coppia che all’interno della famiglia. La difficoltà nasce dalla nostra fragilità, dall’incapacità a volte di far morire il proprio orgoglio, le proprie ragioni per poter accogliere e comprendere le ragioni dell’altro. Non c’è nulla di più bello che sentirsi capiti, e non c’è più nulla e deludente, che il non sentirsi capiti, specialmente quando questa incomprensione proviene da chi dovrebbe amarci.
Il perdono diventa importantissimo lungo un cammino fatto di piccole o grandi incomprensioni. L’esperienza, della lacerazione, della conflittualità, della crisi di coppia, sono segno della radicale povertà: il sentirsi nudi e impotenti. Siamo stati creati al vertice della creazione ma proveniamo dalla terra ci ricorda il racconto della Creazione.
Il perdono diviene quella realtà “tipicamente umana” che dà la possibilità di costruire ponti sui baratri, di ripercorrere strade che sembravano definitivamente interrotte. Questo diviene possibile solamente quando ci educhiamo ad “essere” tenerezza. Essa non è “tenerume”, “smanceria”, “atteggiamento svenevole”, ma è “soave commozione”, “affetto dolce e delicato”.[1]
La tenerezza si oppone a due atteggiamenti piuttosto diffusi quasi sempre connessi fra di loro: la durezza di cuore, intesa come barriera, muro, rigidità, chiusura mentale, e il ripiegamento su di sé come egocentrismo, incapacità a volgersi all’altro, rifiuto e di dialogo e di scambio.[2]
La tenerezza al contrario è flessibilità, permeabilità, apertura di cuore, disponibilità al cambiamento. La tenerezza non rappresenta un optional, ma una vocazione profonda che umanizza la persona e la rende amorevole, capace di ascolto, di accettazione, di giusta stima e tolleranza.
Essa avviene, accade, la sperimentiamo; ma esige di essere assunta nel vissuto concreto della nostra esistenza:
“ Il sentimento della tenerezza porta con sé un’analoga ambivalenza: ci è dato come un ricco potenziale di sensibilità, volto all’accoglienza e al dono, allo scambio amicale e all’amabilità, ma esige di essere incanalato nella giusta direzione, in risposta al disegno di Dio sulla nostra vita e sul mondo. Vivere l’esistenza con tenerezza non è dunque un dato scontato: suppone un cammino e richiede una disciplina. La tenerezza ha bisogno di incontrarsi con la ricerca della maturità e viceversa. L’una sostiene l’altra e la manifesta. Solo assumendo la tenerezza in un’ottica di questo genere è possibile evitare il pericolo di viverla come una compensazione affettiva o un’acquiscenza ai vuoti del cuore umano, oppure ridurla a dipendenza psicologica o strumentalizzarla a fini di potere sull’altro/a da sé”.[3]
Il perdono e la tenerezza, dunque, si colgono l’uno nell’altra, come in un gioco di specchi l’uno si specchia nell’altro, l’uno non vive senza l’altra. Il perdono senza la tenerezza sarebbe svuotato del suo dinamismo affettivo, la tenerezza senza il perdono rischierebbe di ridursi a un episodio di natura solo emotiva o superficiale.
La coppia cristiana per vivere in profondità questa esperienza deve volgere lo sguardo al Dio di Gesù Cristo, il Dio della tenerezza misericordiosa. L’appello a essere “misericordiosi come è misericordioso il Padre che sta nei cieli” (Lc 6,36) rimanda all’imperativo: diventare testimoni della tenerezza di Dio! Nell’Incarnationis Misterium, Giovanni Paolo II afferma che il perdono:
“E’ uno degli elementi costitutivi dell’evento giubilare. In esso si manifesta la pienezza della misericordia del Padre, che a tutti viene incontro con il suo amore…”.
Il perdono, dunque, diviene il segno tangibile dell’amore misericordioso di Dio.
IL DIO DI EFRAIM
E’ strana la storia di Osea che è chiamato a sposare Gomer. Uomo provato dalla vita, vive una tragica esperienza coniugale. Sua moglie, Gomer, figlia di Diblaìm, lo tradisce, si prostituisce. Osea riflette sulla propria amara esperienza; cerca di capirne il suo significato più profondo. Illuminato da Dio scopre che la sua triste esperienza, così dolorosa, è simile a quella intercorsa tra JHWH ed Israele, sposa infedele. Il profeta Osea medita sull’amore folle di Dio, sulla fedeltà al berit iniziale con la sposa d’Israele, sul suo continuo ricercarla, perdonarla, riprenderla con sé come se nulla fosse accaduto.[4]
Osea al capitolo 11, 1-9, in un brano stupendo, esalta la tenerezza di Dio come “com-passione”:
1Quando Israele era giovinetto,
io l’ho amato
e dall’Egitto ho chiamato mio figlio.
2Ma più li chiamavo,
più si allontanavano da me;
immolavano vittime ai Baal,
agli idoli bruciavano incensi.
3Ad Efraim io insegnavo a camminare
tenendolo per mano,
ma essi non compresero
che avevo cura di loro.
4Io li traevo con legami di bontà,
con vincoli d’amore;
ero per loro
come chi solleva un bimbo alla sua guancia;
mi chinavo su di lui
per dargli da mangiare.
5Ritornerà al paese d’Egitto,
Assur sarà il suo re,
perché non hanno voluto convertirsi.
6La spada farà strage nelle loro città,
sterminerà i loro figli,
demolirà le loro fortezze.
7Il mio popolo è duro a convertirsi:
chiamato a guardare in alto
nessuno sa sollevare lo sguardo.
8Come potrei abbandonarti, Efraim,
come consegnarti ad altri, Israele?
Come potrei trattarti al pari di Admà,
ridurti allo stato di Zeboìm?
Il mio cuore si commuove dentro di me,
il mio intimo freme di compassione.
9Non darò sfogo all’ardore della mia ira,
non tornerò a distruggere Efraim,
perché sono Dio e non uomo;
sono il Santo in mezzo a te
e non verrò nella mia ira.
Non è mia intenzione fare un’accurata esegesi, ma solo soffermarmi su alcuni passaggi che sono fondamentali a riguardo.[5]
Con nostalgia, il Signore ricorda la sua sollecitudine verso Israele, suo figlio, al tempo dell’uscita dall’Egitto “Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato”.
I vv. 3-4 riassumono i gesti di tenerezza di JHWH nei confronti del suo popolo. Il Signore non solo cura le ferite, ma si prende cura del suo popolo, anche se Efraim è incapace di riconoscere questo atteggiamento “non hanno compreso”.
Non come un Dio che comanda, ma come un essere umano che ama, non con vincoli di autorità, ma con vincoli d’amore: “ li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore”.
In un’immagine familiare, Egli assume l’aspetto di chi solleva un bimbo fino alla sua guancia per baciarlo, di chi insegna a camminare, e si china su di lui per dargli da mangiare. JHWH si china in un gesto di protezione verso chi pone la sua speranza in Lui.
I versetti centrali fanno da contraltare ai primi versetti. Nonostante tutto Efraim ha percorso strade diverse, la sua risposta è dominata dalla ribellione, irrigidito dalla negazione di JHWH (vv.6-7).
Il testo raggiunge l’apice della sua drammaticità nei vv.8-9. Che cosa farà JHWH di fronte a questo figlio amato e ribelle? Lo abbandonerà all’esilio? Lo abbandonerà ad un castigo definitivo, come un giorno fece come Admà e Zeboim, le città gemelle di Sodoma e Gomorra? I vv 8-9 sono fondamentali per la comprensione dell’immagine di Dio in Osea.
Essi mostrano il tormento di JHWH prima di giungere alla sua decisione:
“non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non un uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira” (v.9).
L’agire di Dio si distingue dall’agire dell’uomo in modo radicale. Per quanto inaccessibile nella sua santità infinità “egli è talmente vicino agli uomini che la sua tenerezza vince sulla necessità di perseguire la giustizia”.[6]
Il Pathos divino, infatti, non va compreso come calco dell’affetto umano, ma piuttosto il contrario. Non va interpretato come un atto episodico, ma come un’attitudine inseparabile dall’essere stesso di Dio. In Osea 11 la punizione che doveva essere comminata viene interrotta, perché Dio per primo si è mosso a compassione della sposa-eletta.
GUARDARE CON GLI OCCHI DI DIO
La storia di Osea e di Gomer non è semplicemente,
“quella di un amore non corrisposto e neppure della generosità di un uomo nei confronti di una donna che non lo merita. E’ piuttosto la storia di una conversione, o forse di due”. [7]
Probabilmente, prosegue Yofre, Osea si era immaginato che la sua relazione con Gomer fosse destinata a convertirla. Doveva passare molto tempo prima che egli potesse comprendere che la sua missione era semplicemente quella di amarla. L’Osea rigido, giustiziere, preoccupato di quel che ha dato, dovrà convertirsi in un uomo moderato, paziente, che conosce il modo di agire di JHWH, cerca di imitarlo e sopporta la propria umiliazione di fronte agli occhi degli altri, per ristabilire un rapporto che avrebbe dovuto aiutare una donna.
La conversione etica di Osea è il punto di partenza e il fondamento della sua conversione teologica. E’ l’immagine di JHWH che cambia nella concezione di Osea.[8]
E’ questo il significato di Os 2,18, che riassume il processo di conversione teologica: “Mi chiamerai “mio marito e non mi chiamerai più “mio padrone” (baal)”.
Commenta Yofre a pag. 148:
“JHWH non vuole essere più considerato il proprietario (questo è il significato primo del termine) che ha comprato il suo popolo con i propri doni, e per questo deve essere venerato e servito, ma lo sposo ama per se stesso, e che ama non in proporzione dell’amato, ma con la gratuità assoluta dell’amicizia”.
Osea doveva rinunciare ad una relazione impositiva, nella quale pensava di avere diritto a una fedeltà totale solo perché aveva offerto i propri doni. Doveva comprendere quale era il suo cammino seguito da Dio con il suo popolo: la disposizione a ricominciare nonostante l’infedeltà e ad accontentarsi di una risposta imperfetta.
E’ questo che Dio chiede ad ognuno di noi, ad ogni coppia, all’interno della nostra famiglia: guardare con gli occhi di Dio .
Ci chiede di non fermarci a guardare come nella parabola del Figlio Prodigo, con gli occhi del figlio maggiore “ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso” (Lc 15,30); ma di passare dalla parte del Padre.
I gesti del Padre sono solo tenerezza viscerale; l’abbraccio e i baci continui sono segni di perdono e riconciliazione, nonché del fatto che il Padre tratta il figlio da eguale, non da schiavo o inferiore. Il perdono è un dono maggiore “Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,23-24).
Questo passaggio per quanto difficile è importante all’interno della coppia e della famiglia. Il perdono è il dono perfetto dell’amore, perché è un’imitazione del comportamento di Dio verso gli uomini. L’offerta del perdono al coniuge, dal quale si è ricevuta una ferita grave o una ferita profonda, diventa una necessità interiore quando si è fatta l’esperienza del perdono da parte di Dio. Chi riconosce con umiltà i propri sbagli e accoglie con gioia il perdono di Dio, sarà capace di capire chi sbaglia e di offrirgli il perdono. S. Paolo ricorda agli Efesini:“Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonatevi a vicenda come ha perdonato a voi in Cristo" (Ef 4,32).
Questo comporta, inoltre, accettare che il nostro non è un amore sempre e subito perfetto, non un amore sempre e subito fedele, ma un amore che vive le debolezze dei conflitti, le difficoltà e le cadute che però non costituiscono mai l’ultima parola ma il punto di partenza per “una nuova creazione”. I coniugi cristiani non godono di sconti o privilegi, vivono i conflitti, le piccole o grandi disattenzioni che portano a turbamenti e insofferenze progressive. In questo momento di “non bellezza”, di “difficoltà”, i coniugi sono chiamati a fare come Osea “andare nel deserto”.
“il deserto arido della propria finitudine, dei propri limiti, del silenzio della propria coscienza che non sa amare come vorrebbe, “parlare al cuore” col cuore, ricostruire la storia buona del proprio amore e dei suoi frutti, convinti che l’amore del Padre è capace di darci una nuova possibilità di testimoniare l’amore”.[9]
Il perdono non banalizza l’amore, ma lo rinnova purificando dentro di noi la tendenza a buttare solo sul coniuge la responsabilità del litigio. Il perdono non è debolezza dell’indulgenza, ma la forza che rompe il cerchio dell’aggressività.
Le “crisi”, dunque, non hanno solo il marchio della negatività, la crisi rinvigorisce, aiuta a crescere, in special modo quando si è disposti a ricominciare, a ri-dialogare, senza la presunzione di avere sempre ragione. Solo in questo contesto di “rinascita“, il perdono diviene la possibilità “tipicamente umana” per permettere alle crisi, ai conflitti e ai fallimenti di sprigionare la loro forza positiva di crescita. La comunione coniugale e familiare può essere recuperata, conservata e perfezionata solo con un grande spirito di sacrificio che è partecipazione viva al mistero pasquale, ove la croce non è fine a se stessa, ma itinerario verso la Vita.
In questo percorso ha validità l’affermazione seguente del Catechismo olandese:
“In una stanza l’immagine del Crocifisso è più di un ornamento. Vuol dire, in fondo, che niente è senza speranza purché ci siamo provati ad amare. Significa inoltre che l’assoluta indissolubilità del matrimonio, anche quando, in casi umanamente disperati, sembra priva di significato, mantiene tuttavia il suo senso profondo di partecipazione all’amore di Cristo fino alla crocifissione. Come il Cristo non ha abbandonato l’umanità né la Chiesa quando lo inchiodavano sulla croce, così ogni matrimonio contratto nel Signore conserva l’indissolubilità del legame fra Cristo e la Chiesa, anche quando è divenuto una crocifissione. La presenza di Gesù nel matrimonio fra credenti non esclude, dunque, a priori, incompatibilità di carattere, errori nella scelta matrimoniale, difficoltà con i figli, nervosismi, malattia, noia e neppure una separazione necessaria e permanente, ma significa che, per i credenti, il Terzo, cioè il Cristo, è sempre presente; Cristo che dà forza, conforto, speranza, mentre fa osservare come sia sempre meglio dare che ricevere. Chi si impegna di questo spirito nei giorni felici, potrà continuare a vivere di questa speranza nelle ore difficili”.
IL PERDONO PORTA DI SPERANZA
Si legge in Osea 2,17: “Trasformerò la valle di Acòr in porta di speranza”.
Commenta il biblista Vivaldelli:
“A questo punto il testo riporta un esempio di infedeltà della sposa; avrebbe una miriade di infedeltà da descrivere. Ne sceglie una: la valle di Acòr. Che cosa era successo in quella valle?”.[10]
L’episodio si trova in Gs 7. Dobbiamo sapere che dopo la conquista di ogni città, doveva essere applicata la legge dello sterminio, cioè la distruzione totale del bottino conquistato in guerra. Acan della tribù di Giuda, contravvenendo a questa regola, dopo la conquista di Gerico, rubò di nascosto parte del bottino all’insaputa di Giosuè e di tutto il popolo. Essi credendo di aver dalla loro parte il Signore attaccarono pieni di fiducia Ai. Le cose non andarono secondo i loro piani, subirono una dura sconfitta e dovettero fuggire a “gambe levate”. Nella città di Ai morirono trentasei uomini del popolo ebraico. Giosuè preso dalla disperazione si buttò a terra gridando: “ Signore Dio, perché hai fatto passare il Giordano a questo popolo, per metterci poi nelle mani dell’Amorreo e distruggerci?” (Gs 7,7). Al v.10 il Signore svela a Giosuè il peccato di Acan. Dopo questa rivelazione e dopo aver fatto confessare Acan, Giosuè e tutto il popolo portarono quest’ultimo e la sua famiglia a morire nella valle di Acòr che significa “valle di sventura”.
La valle di Acòr, dunque, è il simbolo di un luogo dove una famiglia ha conosciuto un mortale e radicale fallimento. Una famiglia è stata annientata nella valle di Acòr.
Vivaldelli usa questa immagine per farci comprendere che la com-passione di Dio. Egli trasformerà quella “valle di sventura” in porta di speranza. E’ come se Dio dicesse “Io metterò in quella situazione una possibilità d’accesso ad una nuova vita, ad una nuova possibilità di vita. Diventerà una porta di speranza”.
E’ stupenda questa riflessione perché ci dice che Dio è capace di trasformare le numerosi “valli di sventure” che si offrono nella nostra vita di coppia in porte di speranze.
Ma sicuramente la Parola di Dio ci chiede di diventare noi stessi porta di speranza. Noi possiamo, attraverso il perdono, essere momento di consolazione per l’altro perché abbiamo sperimentato la speranza. Il fondamento sul quale appoggiare la nostra chiamata lo troviamo in Osea 2,16 quando si dice: “e parlerò al suo cuore”, la traduzione corretta sembra essere “parlerò sul suo cuore”. Questo significa che Dio si appoggia sul nostro petto, vuole avere un rapporto di comunione con noi. Anche noi, dunque, siamo chiamati ad appoggiarci sul cuore di Dio, così come Lui fa con noi. Solo se sentiamo questo battito saremo capaci di perdonarci.
Il dono che Dio ci fa è il perdono. Solo se riusciremo a testimoniare il perdono di Dio, e, di conseguenza, il Dio del perdono, riusciremo ad essere porte di speranza credibili. Solo così possiamo essere saldamente ancorati al fondamento della misericordia di Dio.
Termino con una frase di Primo Mazzolari: “ La speranza vede la spiga, quando i miei occhi di carne vedono soltanto un seme che marcisce”.[11]
Una speranza che è radicata in quella situazione drammatica, una speranza che non può prescindere dal seme che marcisce.
[1] C. ROCCHETTA, Teologia della tenerezza, EDB, Bologna 2000, p.9
[2] Ivi p.28.
[3] Ivi p.32
[4] C. ROCCHETTA, L’ Evangelo del matrimonio, Gribaudi, Milano 1994 p.36
[5] H.S. YOFRE, Il deserto degli dei. Teologia e storia nel libro di Osea, EDB, Bologna 1994, pp. 116-118
[6] C. ROCCHETTA, Teologia della tenerezza p.130
[7] H.S. YOFRE, Il deserto degli dei, p.148
[8] Ivi, p.148
[9] CENTRO PER LA FAMIGLIA DIOCESI DI LODI, I segni del Giubileo in famiglia, Lodi 1999 p.17
[10] G. VIVALDELLI, Tarsformerò la valle di Acòr in porta di speranza, può diventare tutto “storia di salvezza”?, in Matrimoni in difficoltà: quale accoglienza e cura pastorale? Ed. Cantagalli, Siena 2000, pp.31-32
[11] Ivi p.25