Cristo-sposo




VII° INCONTRO DIOCESANO

Dalla Sponsalità di Cristo-Chiesa,
all’azione pastorale per la famiglia

di don Mario Colavita

Termoli, 2 giugno 2005



“La famiglia stessa è il grande mistero di Dio. Come chiesa domestica, essa è la sposa di Cristo”. (Giovanni Paolo II)

Continuiamo i nostri incontri di spiritualità familiare, facendoci aiutare dall’icona di Cristo lo sposo della Chiesa sposa. Da questa icona prende spunto la nostra riflessione, Cristo è lo Sposo, è lo Sposo innamorato della sua Sposa, la Chiesa! Questo mistero è grande, cioè ciò che avviene tra i due è Grande! E’ il mistero dell’amore donato ed accolto, è il mistero della relazione tra Dio e l’uomo, è il mistero che abbraccia e bacia l’uomo e la donna nel desiderio di fare e portare avanti la famiglia.
Dall’immagine sponsale di Cristo, di cui abbiamo parlato e riflettuto in questo anno, nasce la consapevolezza dell’importanza di ri-vedere e ri-partire da questo dato così importante e fondativo per comprendere la dimensione del matrimonio come sacramento dell’amore tra uomo-donna.
Se togliamo dal matrimonio la dimensione dell’amore esso rischia di diventare un arido contratto giuridico, dove i due rivendicano la propria parte. E’ l’amore che unisce, rende una cosa sola. Come è questo amore, quanto è forte l’amore sponsale? Per capire l’immagine più limpida la troviamo in Cristo Sposo e nella Sposa, la Chiesa.

La sponsalità di Cristo cuore e anima della vita di coppia

Più volte il papa Giovanni Paolo II, ha ribadito e rilanciata l’idea della contemplazione del volto di Cristo, fissare lo sguardo su di lui significa lanciare luce sulla esistenza stessa dell’uomo e della donna. Nel NT è lo stesso Cristo che si presenta nella vesta di sposo. Lui non ha parlato del significato dell’essere uomo e donna, sposo e sposa, padre e madre, ma si è fatto egli stesso interprete e protagonista dell’esperienza sponsale innestando nella nuzialità Umana quella divina. Ecco allora l’importanza di ricuperare il linguaggio di Cristo sposo e della Chiesa sposa, esso ha il pregio di fissare lo sguardo su Cristo e di rinvigorire anche la dimensione della chiesa. La Chiesa è la sposa, la chiesa siamo noi, il popolo dei battezzati, la chiesa è la famiglia definita per antonomasia piccola (chiesa). La chiesa è unita a Cristo come lo sposo è unito alla sua sposa. Vedete allora che l’immagine diventa simbolo di una realtà più forte e profonda.
In questi anni, i teologi, le università pontificie, le commissioni.., stanno approfondendo il titolo antico di Cristo sposo, in questo vi invito a guardare con attenzione l’icona, Cristo sposo-re illumina e vivifica la chiesa regina, in questo mistero dell’amore grande ciascuno scopre la propria vocazione, la rafforza e nello stesso tempo la mette al servizio per il bene della chiesa in Cristo.
Da questa certezza, la coppia, la famiglia, i giovani fidanzati possono dare un volto alla loro ecclesialità, nasce la domanda: perché lavorare per e nella chiesa? Cosa ci spinge a dare la nostra testimonianza nella comunità parrocchiale? Penso proprio che l’immagine sponsale di Cristo e Chiesa siano il motivo trascinante per andare avanti per prendere il largo anche per una pastorale che recuperi appieno il senso della sponsalità[1].
Su questa strada l’insegnamento del compianto Giovanni Paolo II è stato eccezionale e nello stesso tempo illuminante. Nel 1994 ricorrendo l’anno internazionale della famiglia ha voluto scrivere una lettera alle famiglie in essa invita le coppie, le famiglie a lasciarsi affascinare dal mistero grande, e nello stesso tempo a ri-leggere la propria vita: “La famiglia stessa è il grande mistero di Dio. Come « chiesa domestica », essa è la sposa di Cristo. La Chiesa universale, e in essa ogni Chiesa particolare, si rivela più immediatamente come sposa di Cristo nella « chiesa domestica » e nell'amore in essa vissuto: amore coniugale, amore paterno e materno, amore fraterno, amore di una comunità di persone e di generazioni. L'amore umano è forse pensabile senza lo Sposo e senza l'amore con cui Egli amò per primo sino alla fine? Solo se prendono parte a tale amore e a tale « grande mistero », gli sposi possono amare « fino alla fine »: o di esso diventano partecipi, oppure non conoscono fino in fondo che cosa sia l'amore e quanto radicali ne siano le esigenze.(LF,19).

Quale cammino pastorale

Le sfide pastorali oggi sono enormi. La chiesa oggi sembra combattere con un nemico invisibile, un po’ come muovere guerra ai mulini a vento di Cervantes. Il nemico invisibile è la cultura, essa abbraccia tutto il nostro modo di vivere. Se una cultura accentua un aspetto piuttosto che un altro allora l’uomo, il suo vivere accentuerà l’uno o l’altro aspetto. “Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia
come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”. Così il cardinale Ratzinger per la messa pro eligendo pontifice
Ricuperare il senso della vita e dare senso alla vita stessa è una delle grandi sfide della famiglia, (vediamo in questo la situazione sul referendum), il senso dell’amore tra uomo e donna, della famiglia come bene in sé e bene per la società stessa.
Cosa possiamo fare noi? Come cercare di incidere in una cultura che sembra fagocitare ogni segno di speranza? Come cristiani non possiamo non scommettere sulla forza dell’amore, quell’amore che si veste degli abiti nuziali e si arricchisce della realtà familiare. Incidere su una cultura che pone sull’altare dell’esistere la libertà a tutti i costi da ogni cosa e da ognuno, vuol dire avere chiaro e forte il concetto del valore del fine della vita e di che senso dare alla vita. Penso che riflettendo ancora di più su questo, e così passare da un pensiero ad un modo di vita (ricuperare il valore dell’amore coniugale, la preghiera tra la coppia e in famigliare ad esempio), le famiglie, possono incidere su quel complesso sistema culturale che già da qualche anno o più, ha messo fuori uso l’amore in sé, la fedeltà e ogni cosa che sa di definitivo.
Due figure ci aiutano a capire la nostra situazione e a reagire ad essa. Le prendo a prestito dagli studi di Joseph Ratzinger. Una è l’immagine del sicomoro.
Raztinger, in un incontro del 2002, parlando della comunicazione, cultura e evangelizzazione, cita S.Basilio Magno, egli parte dal profeta Amos raccoglitore di sicomori: «Pastore sono e coltivatore di sicomori» (Am 7,14). La traduzione greca del libro del profeta, la LXX, rende in modo più chiaro nel seguente modo l’ultima espressione: «Io ero uno che taglia i sicomori[2]». Per questo motivo, noi riteniamo, (il sicomoro) è un simbolo per l’insieme dei popoli pagani: esso forma una gran quantità, ma è allo stesso tempo insipido. Ciò deriva dalla vita secondo le abitudini pagane. Quando si riesce a inciderla con il Logos, si trasforma, diviene gustosa e utilizzabile». Raztinger da questa immagine trae il suggerimento saggio dell’incisione, chi incide per trasformare da amaro in gustoso è il Logos (Cristo). Il Cristo, però, ha bisogno dei coltivatori, cioè di coloro che sappiano incidere “l’intervento necessario presuppone competenza, conoscenza dei frutti e del loro processo di maturazione, esperienza e pazienza”. Oggi chi più della famiglia può incidere sulle altre famiglie, chi più della famiglia come società naturale e soprannaturale può veicolare il valore dell’amore, del perdono, della fedeltà, dell’educazione?
L’altra immagine è quella del circo. Nell’introduzione al cristianesimo il teologo Ratzinger, narra una storiella ripersa da Kierkegaard: La storiella è interessante. “Narra come un circo viaggiante in Da­nimarca fosse un giorno caduto in preda ad un incendio. Ancora mentre da esso si levavano le fiamme, il direttore mandò il clown già abbigliato per la recita a chiamare aiuto nel villaggio vicino, oltretutto anche perché c’era pericolo che il fuoco, propagandosi attraverso i campi da poco mietuti e quindi aridi, s’appiccasse anche al villaggio. Il clown corse affannato al villaggio, supplicando i pae­sani ad accorrere al circo in fiamme, per dare una mano a spegnere l’incendio. Ma essi presero le grida del pagliaccio unicamente per un astutissimo trucco del mestiere, tendente ad attrarre la più gran quantità possibile di gente alla rappresentazione; per cui lo applau­divano, ridendo sino alle lacrime. Il povero clown aveva più vo­glia di piangere che di ridere; e tentava inutilmente di scongiurare gli uomini ad andare, spiegando loro che non si trattava affatto d’una finzione, d’un trucco, bensì d’una amara realtà, giacché il circo stava bruciando per davvero. Il suo pianto non faceva altro che intensi­ficare le risate: si trovava che egli recitava la sua parte in maniera stupenda... La commedia continuò così, finché il fuoco s’appiccò realmente al villaggio, ed ogni aiuto giunse troppo tardi: sicchè vil­laggio e circo andarono entrambi distrutti dalle fiamme[3]”. Il dramma della storiella non è forse il dramma che vive la chiesa? La nostra pastorale? Con tutti i mezzi noi ci sforziamo di comunicare la verità, la bellezza dei valori del matrimonio e della famiglia, dell’educazione dei figli… con risultati minimi….
In questo contesto culturale, non certo facile, comunicare e ravvivare una spiritualità familiare, che muove dalla sponsalità di Cristo, penso, sia la speranza pastorale dei nostri tempi. La speranza si riaccende nella famiglia e nel cuore di ognuno, è credere nell’amore che per chi ha fede diventa forte come la morte.
Per questo e concludo, ci auguriamo tutti laici e non, un impegno maggiore nel ravvivare il dono dell’amore sponsale, lì è il cuore del cuore del mistero che annunciamo e quel cuore vogliamo interrogare e trovare suggerimenti…. Grazie!







[1] Non a caso i due sacramenti ordine e matrimonio, sono come due cugini stretti, chi per l’antico li ha nettamente separi, oggi non può non metterli insieme perché ambedue sono ordinati alla salvezza degli altri. Scrive il catechismo: “due altri sacramenti, l’Ordine e il matrimonio, sono ordinati alla salvezza altrui. Se contribuiscono anche alla salvezza personale, questo avviene attraverso il servizio degli latri. Essi conferiscono una missione particolare nella Chiesa e servono all’edificazione del popolo di Dio” CCC, 1534.

[2] La traduzione si fonda sul fatto che i frutti del sicomoro devono essere incisi prima del raccolto, poi maturano entro pochi giorni. Basilio presuppone nel suo commentario a Isaia 9, 10 questa prassi, infatti egli scrive: «Il sicomoro è un albero, che produce moltissimi frutti. Ma non hanno alcun sapore, se non li si incide accuratamente e non si lascia fuoriuscire il loro succo, cosicché divengano gradevoli al gusto.

[3] J.Raztinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 19745, 11-12.